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Blog tour di “Cuore sordo”: I personaggi



Per scrivere questo articolo, sono andata ad intervistare direttamente chi ha vissuto sulla propria pelle le vicende narrate in “Cuore sordo”, ovvero i suoi personaggi. Ho fatto visita a Lucia Costa, Katy Walsh, Maja Androne, Valerie Lotto, Alice Cartwright. Tutte loro si sono dimostrate molto disponibili e mi hanno dato degli spunti interessanti di conversazione.

Lascerò quindi che siano loro stesse a presentarsi a voi.


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Fui accolta in casa di Lucia Costa da un cane molto affettuoso, di nome Kira, che non esitò a saltarmi addosso in cerca di coccole e, forse, anche di qualche biscotto da mangiare. Ho accarezzato il suo morbido pelo corto e grigio, tipico della razza Weimaraner, mentre i suoi occhioni parevano sussurrarmi parole silenziose, cariche di dolcezza. Qualche minuto dopo Flipper, un gatto miagolante dal pelo rosso chiaro e i grandi occhi verdi, si avvicinò strusciandosi contro la mia gamba, come a dire: “Ehi, umana, guarda che ci sono anche io. Non vedi che meraviglia il mio manto oro antico?”. Li dovetti coccolare per qualche minuto prima di riuscire a rivolgere la parola alla padrona. Lucia è una ragazza giovane e molto cordiale. Abbiamo sciolto immediatamente il ghiaccio, con un buon tè caldo. Mi parlò per qualche minuto degli affari suoi e feci fatica a interromperla per iniziare l’intervista. Non fu una conversazione spiacevole. Ho amato la compagnia di Lucia, la sua simpatia e l’energia con cui fa le cose di ogni giorno.

«Come fai, con la tua sensibilità, a fare questo tipo di lavoro?» le chiesi inizialmente.

«Già, come faccio?». Lucia sospirò e mi rivolse un sorriso intenso. Osservò anche il tavolino davanti a noi, poi il cuscino sulla poltrona su cui ero seduta, come per accertarsi che fosse tutto in ordine e che la sua ospite fosse perfettamente a suo agio. Tutti atteggiamenti che denotavano una natura premurosa. «Ammetto che a volte, anzi oserei dire spesso, torno a casa col mal di pancia. Tutte quelle ossa senza nome, sulla superficie gelida del tavolo anatomico… non è un lavoro semplice e, per come sono fatta, la cosa più difficile è proprio quella di porre una certa distanza emotiva tra me e la vittima. L’idea per lo meno è quella, che poi io ci riesca è tutto da vedere.» Rise, spostandosi con la mano destra un ciuffo di capelli biondi che le era ricaduto sull’occhio. Poi facendosi seria aggiunse: «Eppure non potrei fare a meno di fare ciò che faccio, sai? Posso darti del Tu, vero? Sei così giovane! Lo farei anche se non fossi pagata, è come una missione, qualcosa che mi parte da dentro.»

«Certamente, sono stata la prima a passare al Tu, dopotutto. Sono curiosa, cosa ti ha fatto scegliere l'antropologia forense?»

«Come dicevo, per me è una passione autentica. Ho sempre guardato alla televisione film su questo genere e, fin da quando studiavo biologia all’università, sapevo che era questo, il mio destino. Ogni volta che mi accingo a lavorare ad un caso mi immagino gli occhi della vittima, il suo sguardo, il suo viso. Anche senza neppure conoscere ancora il suo nome, la sento vicina. Percepisco la sua presenza. Da qualche parte. Come se si aspettasse che io la aiuti.»

Fece una pausa. Io non le misi ulteriore pressione, comprendendo il suo turbamento. Le sue parole mi fecero capire che Lucia sentiva ogni cosa sulla propria pelle. Era come se fosse nata per fare questo lavoro.

«Nei momenti più difficili, quando il caso si ingarbuglia o io mi sento impaurita, è proprio questa sensazione a darmi la forza e la motivazione necessarie per andare avanti. Devo aiutare queste persone, costi quel che costi. E porto a termine il mio dovere, sempre.»

Rimasi qualche attimo in silenzio e ricambiai il suo sorriso, per poi continuare l’intervista.

«Sei un’amante dei viaggi, o preferisci startene tranquilla a casa?»

«Mi piace moltissimo viaggiare, perché la trovo un’ottima opportunità per visitare luoghi che non conosco, conoscere culture e stili di vita tanto differenti rispetto ai nostri. Però mi piace anche restare a casa, in tutta tranquillità, magari stravaccata sul divano, con la copertina, a guardare Amici di Maria de Filippi.» Rise, prendendo in braccio Flipper, il quale mi fissò con gli enormi occhi. Kira, gelosa, le si avvicinò e le diede dei colpetti sul braccio con il muso, come a voler dire: “Perché prendi in braccio lui e non me?”.

«Sei una persona curiosa, quindi. Ho saputo che hai una zia anziana, come sta?»

Il suo sguardo si fece preoccupato. «Ah, la mia zietta!» esclamò, sospirando. «Evita è la zia di mio padre e per me è come una nonna, sai? Le sono molto affezionata. Sta abbastanza bene, anche se spesso… spesso formula pensieri strani, mi guarda e mi accarezza come quando avevo ancora dieci anni. Tutto questo è frutto della demenza senile, lo so, ma mi ferisce e ogni volta parlarne è come un pugno violento al cuore.» Mi versò un’altra tazza di tè e si alzò per offrirmi altri biscotti, nonostante non glieli avessi chiesti. Forse lo fece per stemperare quell’emozione che si era impadronita di lei.

Lucia era una persona talmente discreta che non sarebbe mai stata capace di dirmi “Non ne voglio parlare, cambiamo argomento.” Capii da sola però che era il caso di non proseguire su questa linea, per non ferire la sua sensibilità.

«Come ti immagini il tuo futuro?»

«Fantastica questa domanda!» cominciò, con una luce e un entusiasmo del tutto nuovi negli occhi. «Pensa, mi è venuta un’idea a riguardo proprio questa notte, non lo sa ancora neanche Fabio e nemmeno i miei genitori.» Sorrise un’altra volta.

Feci altrettanto. La sua solarità e la sua spontaneità erano contagiose.

«Sei praticamente la prima a saperlo. Tra un po’, non so ancora quando eh? Magari fra qualche anno. Però mi piacerebbe davvero andare in Africa.» Fece una pausa, come per sottolineare la solennità di quel momento. «Voglio prendere in braccio un cucciolo di leone bianco.» Guardò un attimo per terra. «E poi c’è un altro sogno. In futuro mi immagino… Sì, mi immagino mamma.»

La dolcezza di questa donna mi sciolse il cuore. Alla fine, la salutai con affetto dalla soglia della porta di casa e tornai sui miei passi, soddisfatta della lunga chiacchierata.


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Sicuramente non posso dire che la mia accoglienza sia stata la stessa, quando ho fatto visita a Katy Walsh. Era una giornata fredda e entrai nella stazione di polizia, cercando disperatamente un po’ di calore. L’ho incontrata nel suo ufficio, intenta a lavorare, china su un fascicolo. La sua scrivania di mogano era così piena di dossier che avrei detto la superfice fosse bianca. Mi dovetti sedere davanti a lei per farle capire che ero arrivata. Non sembrava affatto interessata a parlare con me. Ho dovuto quindi iniziare io il discorso, ero molto imbarazzata: mi presentai e cominciai a porgerle qualche domanda.

«Sei una bella ragazza, hai mai avuto dei colleghi corteggiatori?», quando lessi che questa era la mia prima domanda, mi chiesi seguendo quale logica l’avessi scritta.

Katy alzò lo sguardo e mi scrutò in silenzio. Mi domandai cosa le stesse passando per la testa in quel momento, la sua espressione era davvero imperscrutabile. Lei e Lucia erano molto amiche, ma erano proprio una l’opposto dell’altra. «Questa è una domanda che riguarda il lavoro?».

Cominciamo bene, pensai. Lei tornò a guardare il fascicolo e a me venne quasi voglia di alzarmi e andarmene. Poi sospirò e finalmente mi degnò della sua attenzione. «La ringrazio per il complimento, mi perdoni, non volevo essere brusca. Per quanto riguarda i corteggiatori, si ne ho avuti. Purtroppo.» Compresi che era meglio cambiare argomento. Sicuramente non si trattava di una ragazza capace di parlare di amore e di sentimenti con facilità. Tanto meno con un’estranea.

«Cosa ti ha spinta a diventare un poliziotto?» continuai, fingendo di niente.

«La mia voglia di farcela, la mia determinazione. Fin da piccola sognavo di arrestare assassini e far trionfare la giustizia. Nei sogni che facevo a vincere ero sempre io, buffo no?» Si interruppe e mi parve di scorgere nei suoi occhi un bozzolo di sorriso. Ero certa di averlo colto.

«Chi ha creduto in te fino alla fine?»

«Il mio medico di famiglia. Si chiama Laura. Ha creduto in me da quando mi ha conosciuta. Vive in America, ma ci sentiamo qualche volta via e-mail. Siamo diventate amiche con il tempo.» «Hai voglia di parlarmi del tuo ex marito?»

Sospirò, poi tornò al suo dossier e per un po’ non mi parlò più. Mi sentii a disagio. Sicuramente avevo sbagliato domanda. Lei me lo confermò poco dopo. «Guardi, preferirei non parlarne. Sul serio, lei mi è anche simpatica, ma questo non è un argomento facile. Mi scusi.» Non aggiunse altro.

C’era di sicuro un alone di mistero a riguardo. Mi sarebbe piaciuato indagare e saperne di più, ma non era quella la sede giusta.

Mi sgranchii la voce, un po’ imbarazzata dalla mia figuraccia. «La tua famiglia come sta?»

«La mia famiglia sta bene, la ringrazio per l’interesse. I miei genitori vivono in America, ma mi chiamano spesso. Mi chiedono di mollare tutto e di tornare a casa. Io però qui mi trovo bene, tutto sommato. E ora, mi dispiace, ma devo rimettermi al lavoro. Arrivederci.»

Katy mi liquidò in fretta e non trovai più occasione di rivolgerle la parola da allora.


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Fare visita a Maja Androne è stata un’esperienza che non mi toglierò mai dalla testa. Una volta entrata nella sala d’aspetto, mi misi seduta e attesi nervosamente il suo arrivo. Quando vidi il suo sguardo spento, capii subito che avrei dovuto tenere un atteggiamento diverso dai precedenti intervistati. Un’aura di tristezza la avvolgeva. Quando si presentò a me però si sforzò di sorridere. Perlomeno era più disponibile a parlare con me rispetto alla poliziotta.

«Che bel nome Maja, che cosa significa?»

Lei mi guardò con i suoi occhi peculiari: racchiudevano tre colori in uno, come dei gioielli. Non saprei decifrare i sentimenti di cui erano impregnati i suoi pensieri. Rispose alla mia domanda senza mostrare sorrisi, ma senza nemmeno apparire scocciata.

«Il mio nome è una variante di Maia, che deriva dal nome di una ninfa acquatica della mitologia greca. Significa “nutrice, madre, che raccoglie”. Dalla stessa radice deriva il nome del mese di maggio.» «Interessante. In che tipo di famiglia sei cresciuta, Maja?» continuai.

«Mia madre è una brava persona, lo penso davvero. Sento la sua vicinanza e con mia figlia Giorgia è fantastica. C’è una cosa che però non sopporto di lei: la sua totale chiusura verso il passato. Non so niente della sua infanzia, o che vita ha vissuto. Non me ne ha mai voluto parlare. Mi ha fatto sentire una donna incompleta, in questo modo.» Si ricompose, come convinta di essersi esposta troppo. Si agitò sulla sedia, eppure il suo volto mostrava una tranquillità ovattata. Non percepii le sue emozioni. La guardai e attesi qualche minuto prima di porle un’altra domanda. Volevo prima accertarmi che non avesse niente da aggiungere. Per un attimo sembrò muovere le labbra, poi ci ripensò. Dopo un minuto aggiunse: «Possiamo procedere? Non ho molto tempo, purtroppo.» Parve esausta, come svuotata.

Mi spostai quindi su un argomento più felice. «Come ti sei sentita quando sei diventata mamma?»

«Diventare madre è la cosa più bella che possa capitare a una donna. Io forse non sono stata un’ottima madre, ma… bè inutile parlarne adesso, non crede? Giorgia è una bimba meravigliosa, è dotata di una dolcezza che rapisce. Non lo dico certo perché è nata da me, ma è proprio adorabile «Ti andrebbe di parlare di ciò che ti è successo in passato?»

«Quale passato?». Colsi la sua ironia, se pur atipica, ma come al solito non sorrise. «Non è mia intenzione offenderla, ma ciò che è accaduto mi ha segnata, ferita, per sempre. Non riesco a parlarne, lei non può sapere cosa si prova a… stop. Passiamo al quesito successivo, grazie.»

Gli occhi non tradirono alcuna emozione. Rimasi con quel dubbio in eterno.

Tornai su un argomento meno imbarazzante. «La piccola Giorgia è molto portata per la danza. Da chi ha preso questa passione per il ballo?»

Finalmente lei accennò un sorriso e rise un poco. «Oh, da me no di sicuro! E nemmeno da mio marito Lukas. In famiglia siamo tutti negati, davvero. Giorgia è molto brava, ma ha fatto tutto da sola.»

Dopo avermi risposto si alzò e mi salutò, con profonda educazione. Capii allora che il tempo per parlare era scaduto.


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Quando entrai nell’appartamento di Valerie Lotto, mi parve quasi di essere un ladro. La ragazza mi aprì la porta con diffidenza e mi chiese chi fossi, come se non avessimo parlato al telefono solo poche ore prima. La sua tana era minuscola e completamente disordinata: intravedevo nella camera da letto i vestiti gettati a terra in mucchietti, la cucina era ricoperta dai sacchetti della spesa, mezzi svuotati, mentre per terra nel corridoio e nel piccolo spazio annesso che doveva essere il salotto si poteva trovare qualsiasi tipo di oggetti, dalle bottiglie d’acqua, ai pacchetti di incenso, alle risme di carta per stampante. Nonostante tutto quel disordine, riuscimmo a sederci sul divano. La ragazza sembrava agitata dalla mia presenza, come fossi venuta ad arrestarla.

«Sei una ragazza solitaria, o ami la compagnia?»

Mi sorrise, amabile. Si alzò un secondo, ma poi si sedette nuovamente e nel farlo sembrò quasi inciampare su se stessa. Si mise a ridere da sola. «Mi perdoni, sono sempre stata goffa, non ne azzecco mai una, sa? Ormai mi sono accettata per come sono. Fa parte della mia natura.» Rise di nuovo. «Tornando alla sua domanda… che cosa mi ha chiesto, scusi?» aggrottò gli occhi.

Era talmente buffa che mi sorprese la sua totale disinvoltura nel mostrarlo senza remore. «Ah sì, se amo la compagnia della gente. Bene. Diciamo che sto benissimo anche da sola, ma allo stesso tempo non sono mai stata timida come mia sorella Ivory, quindi mi fa piacere essere circondata da amici. Certo, poi dipende dai momenti, ma in linea generale è così. Per esempio, con lei mi trovo a meraviglia. Può venirmi a trovare quando vuole.»

La ringraziai con educazione. E decisi che questa ragazza mi era proprio simpatica. «Com'era la vita in Francia, come sei cresciuta?»

Non ebbe dubbi su cosa dire, parlò quasi tutto d’un fiato. «Fino all’età di sei anni io e la mia gemella siamo state benissimo. Ci sentivamo amate e poi avevamo il conforto l’una dell’altra. Io parlavo al suo posto, la difendevo, lei mi aiutava a essere meno esuberante. Non che ci sia riuscita, in questo, devo dire.» Sorrise di nuovo. «Quel lontano viaggio a Parigi di pochi giorni è stato l’unico momento idilliaco che ricordo. Da lì sono iniziati i guai, guai grossi, lei lo sa. Per un breve periodo, da adulta, sono andata a vivere in Francia, come per cancellare tutto e ripartire da zero. Da sola. Stavo bene, lì, devo dire. Stavo proprio bene.»

«Tu cosa pensi dei tuoi genitori?»

«Mia madre è sempre stata una donna debole, dipendente in tutto e per tutto da mio padre. E lui invece… cosa posso dire? Lo lascio giudicare a lei.»

La ringraziai caldamente per la disponibilità nel rispondere alle mie poche domande e tralasciai di farne altre, più scomode. Non sarei riuscita a vedere un’espressione di rifiuto sul viso di una ragazza così cordiale.


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La visita che feci ad Alice Cartwright fu la più divertente che ricordo. Non feci in tempo ad arrivare alla porta, che mi aprì sua figlia, la piccola Sylvie. Mi osservò con occhi curiosi. Non fece in tempo a chiedermi chi fossi, che arrivò sua madre e mi accolse in casa. Alice è una donna splendida e molto cordiale. Ciò mi lasciò di stucco, perché mi aspettavo una persona diversa, visti i suoi trascorsi da bambina. Mi disse che le faceva piacere che l’avessi contattata, ma che non aveva parlato con molti giornalisti prima di allora. Mi raccontò diversi aneddoti che avevano sua figlia come protagonista, mentre la piccola era in camera sua a fare i compiti. Mi fece iniziare l’intervista solo dopo avermi fatto assaggiare dei dolcetti inglesi, che era solita preparare a Sylvie.

«Il nome dice tutto, sei una meraviglia. Come va con Sylvie?»

Alice mi guardò e poi abbassò gli occhi, arrossendo un poco. «La ringrazio per il complimento, nessuno mi ha mai parlato così. Sono realmente colpita. E poi, nonostante siamo in Italia, lei ha pronunciato il mio nome in modo corretto. Non Alice, ma Elis. Ci tengo molto, è uno dei pochi ricordi che ho dei miei genitori. Guardi, si merita un altro dolcetto.»

Il suo sorriso era dolcissimo, contagioso. «Con Sylvie va benissimo, non posso proprio lamentarmi di lei. A scuola è diligente, sveglia. A casa mi aiuta come può. Sicuramente è l’unica cosa bella della mia vita.» Disse l’ultima frase con una spontaneità disarmante, non era affatto malinconica. Pareva una donna in grado di accontentarsi di ciò che aveva e di quel poco che la vita aveva saputo donarle.

«Ho saputo che tra te e Alex c'era qualcosa, ti va di parlarmene?»

«Ma certo. Alex è un uomo meraviglioso. In effetti c’è stato qualcosina tra noi, anche se niente di fisico, assolutamente. Difficile da spiegare, è una sensazione strana. Sembrava quasi alchimia, un piacersi reciprocamente ma solo a livello platonico. Poi le cose sono andate così, ma io non ho da rimproverarmi nulla. Anche se soffro un po’, poi mi riprendo.»

Mi guardò sorridendo, come spinta da una dolcezza incandescente, che le partiva dal cuore. Un cuore che non era affatto sordo, mi venne da pensare, nonostante il suo passato. Forza e delicatezza erano due caratteristiche che in lei formavano un connubio perfetto. «Sylvie sembra una bimba molto intelligente, ha preso da te?»

«Sylvie è senza dubbio una ragazzina sveglia, intelligente. Ha occhi per vedere e una testa per capire. Comprende al volo qualsiasi cosa, anche senza che io le dica niente, soltanto guardandomi negli occhi. Non vorrei annoiarla troppo, però, mi perdoni ma io non smetterei mai di parlare di lei. Non so dirle se abbia preso da me, non sono mai stata capace di giudicarmi e non lo voglio nemmeno fare. Posso sono dirle che sono fiera di lei, mi sorregge e io la proteggo. Insieme siamo una forza.»

«Tra le tue patrie, si può dire, preferisci l'Italia o l'Inghilterra?»

«Diciamo che ciascuna delle due ha i propri pregi e i propri difetti. L’Inghilterra ha quasi sempre il cielo cupo e una temperatura più fredda, mi manca la mia nazione. Mentirei se dicessi il contrario, ma amo vivere qui. In Italia ho conosciuto persone splendide, aperte. L’Italia è bellissima e vorrei portare Sylvie a visitarla tutta. E poi si mangia divinamente!»

Si mise a ridere. Il suo sorriso fu come una ventata d’aria fresca, per me. Guardai l’orologio e vidi che si era fatto tardi. Quindi la salutai. Lei mi abbracciò calorosamente.

Ero contenta di averla conosciuta, Alice era una donna che aveva tanto da raccontare e da dare. La sua storia era toccante, ma lei aveva saputo come affrontarla e come uscirne. Doveva ritenersi fiera di che donna fosse diventata.

Uscii dal suo appartamento e mi ripromisi di tornare un’altra volta a farle visita.


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Ringrazio Barbara Ghinelli per la collaborazione nella stesura di questa intervista.

Vi rinvio qua sotto al suo romanzo “Cuore sordo”.



Vi consiglio infine di andare a leggere anche la recensione di "Thriller storici e dintorni" e i luoghi del romanzo di "La nicchia letteraria". Inoltre, vi invito a leggere l'articolo che domani pubblicherà il blog "La lettrice distratta", riguardo all'antropologia forense.


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