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Lettere dall'altra parte: Sconosciuto (5)



Quel giorno finalmente faceva meno freddo. C’era un bel sole caldo, che scottava. Era un giorno perfetto per lavorare, pensava Misa. Era davvero allegra, non sentiva più l’oppressione di qualche giorno prima. Si sentiva soddisfatta e piena di sé, per la prima volta. Roberto non c’era quel giorno e non ne era dispiaciuta, per quanto effettivamente le fosse simpatico.

Non entravano molte persone, solo qualche cliente abituale. Ciò voleva dire tante, tante chiacchiere. Le raccontarono tantissime storie: dalle mattinate più frenetiche alle nottate più festose. Un cliente le parlò del battesimo del suo nipotino. Un’altra le parlò delle abitudini del suo pastore tedesco. Non si annoiava mai ad ascoltare le persone parlare, soprattutto quando lavorava in quel locale.

Furono le 16 e tre minuti quando entrò al bar un ragazzo. Era un giovane uomo un po’ bassino, capelli lunghi e mossi, carnagione chiara. Portava con sé una chitarra ed una tracolla che sembrava piuttosto leggera.

«Buongiorno», le sorrise come se la conoscesse. «Come va?».

Lei pensò che si trattasse di un cliente abituale del signor Federico, perciò lasciò correre. «Buongiorno a Lei. Tutto bene, certo, potrebbe andar meglio a volte», sorrise.

Il ragazzo allora appoggiò la chitarra ad una sedia. «Non mi hai detto che lavoravi qui»

«Scusi?»

«Tu sei Arty, no?», rispose lui con sguardo preoccupato.

«B-beh», a lei parve strano quel nomignolo. Non l’aveva mai sentito prima. «Può chiamarmi Misa se vuoLe».

«Misa? Mi piace!», rispose lui sovreccitato. «Mi faresti un cappuccino, per favore?».

Misa cominciò a preparare la macchina del caffè. Era molto confusa: non ricordava per nulla quel ragazzo.

«Sai… quella canzone della quale ho parlato a tua madre… non te l’ho ancora fatta ascoltare»

«Tu hai parlato con mia madre?», Misa cominciò a preoccuparsi. Chi era quello squilibrato?

«Non ti ricordi? Settimana scorsa…»

«Direi proprio di no», rispose lei freddamente. Temeva che quel ragazzo ci stesse provando spudoratamente con lei.

«Non ti ricordi nemmeno della canzone che suonai davanti all’entrata della metro?».

Lei scosse la testa e appoggiò con impeto la tazzina sul piattino. Per un attimo temette di averla rotta.

Lui prese la sua chitarra e cominciò ad intonare una canzone triste, malinconica, che parlava di un amore impossibile. Com’era possibile che l’avesse già sentita?

«Questa canzone…».

Lui sorrise capendo che aveva fatto centro. «Ti ricordi?»

«In realtà no».

In quel momento arrivò una mandria di persone che avevano abiurato al loro caffè quella mattina. Il bar si riempì tanto, che lei non poté più guardare in faccia quel ragazzo. Appena il locale si svuotò un poco, lei si accorse che lui se n’era andato. Approfittò di un momento di calma per abbandonare la sua postazione ed uscire a controllare. Si era messo a sedere all’esterno per non ingombrare troppo con il suo strumento. Lei tirò un sospiro di sollievo.

«Ehi», la salutò mentre accordava la chitarra.

Lei tornò al lavoro. Doveva ancora capire per quale ragione si stava sentendo così strana.

****

La sua immagine riflessa le appariva così brutta. Doveva assolutamente mettersi il rossetto scuro. Non le importava se il capo non voleva che lo indossasse a lavoro. Ne aveva bisogno. Doveva mascherare l’orrore che erano le sue labbra. Che era la sua faccia. Quel rossetto le ridisegnava completamente i lineamenti.

Tornò in sala a prendere ordinazioni. Si sentiva davvero sfinita e sperava che il trucco servisse a rimpolpare la sua pelle rovinata dallo stress. Le occhiaie erano tanto profonde che non riusciva più a nasconderle con il correttore. Aveva passato troppo tempo a lavorare sulla tesi la notte prima.

«Buona sera», disse un uomo ben piantato e vestito elegantemente.

«Buona sera signore. VuoLe ordinare qualcosa?»

Lui la squadrò come se avesse riconosciuto in lei qualcosa di familiare. «Misa?».

Lei lo guardò impassibile. Non capiva perché la stava chiamando a quel modo. Forse l’aveva scambiata per qualcun'altra. «VuoLe ordinare?», ribadì un po’ scocciata.

«Non mi riconosci? Sono Roberto: il tuo amico».

Lei annuì e strizzò gli occhi. «Sì. Riconosco i maniaci, in genere», dopo aver detto ciò si allontanò.

Quell’uomo doveva esserci rimasto parecchio male, perché continuò a fissarla per tutta la serata. “Ma cosa diamine vuole da me quello?”. Continuò a servire i tavoli, indifferente.

Quando finì il suo turno si recò in camerino. In quel momento ebbe un dejà vu. Non capì esattamente cosa avesse visto, ma sapeva che c’entrava Leonardo, ma anche il signore che l’aveva importunata prima. “Cosa mi sta succedendo? Basta!”. La testa le stava scoppiando. Si preparò in tutta fretta e prese una pastiglia alla melissa per calmare i nervi.

Fuori a quell’ora faceva molto freddo, così si coprì con la sua morbida sciarpa blu. “Misa… Cosa avrà voluto dire?”. Raggiunse la fermata della metro ed incontrò nuovamente il chitarrista che le faceva il filo. Si fermò un attimo lì davanti ad ascoltarlo.

«Misa!».

L’uomo che aveva incontrato al locale l’aveva raggiunta di corsa.

«Scusa, ma tu chi saresti?», gli chiese scocciata.

«Roberto! Lavoriamo insieme, Misa»

«C-che castronerie vai dicendo?», lei fece qualche passo indietro impaurita.

«Ciao Arty», la salutò Leonardo.

«Ciao», ricambiò con flebile voce lei.

«Ti sta importunando?», continuò il musicista, che si era accorto della tensione tra i due.

«C-credo di sì»

«Cosa stai dicendo? Misa… accidenti!».

Lei scosse leggermente la testa. Dentro la sua testa comparivano troppe immagini, non riusciva più a controllarsi. Non capiva per quale ragione non riusciva a ricordare nulla pur avendo tutti quei dejà vu.

«Noi due lavoriamo al bar La tartaruga e la lepre», continuò Roberto. «Ti prego. Dimmi che è uno scherzo. Dimmi che mi stai prendendo in giro».

Lei scosse la testa. Cominciò a tremare.

«Quel locale… ci sono stato qualche giorno fa. Non ti ricordi? Mi hai detto di chiamarti Misa», aggiunse Leonardo. «Vuoi dirmi che non te lo ricordi più?».

«Io mi ricordo di te. Non mi ricordo di lui», indicò Roberto con la mano che tremava.

«Tu sei strana», affermò il figlio del suo capo. Allora decise di andarsene. Non salutò nemmeno. Probabilmente si era offeso.

«Insomma… Come vuoi che ti chiami?», le chiese Leonardo.

Lei non parlò. Era scioccata.

«Ti accompagno».

Presero la metro e fecero la strada fino a casa di lei. Erano rimasti per lo più in silenzio.

«Tu ti ricordi cosa ho fatto quella volta che sei venuto al bar?».

Lui sorrise e le spiegò tutto. Cosa che non servì per niente a tranquillizzarla. Anzi, forse era meglio se non sapeva. Forse era davvero così e avrebbero dovuto rinchiuderla in un manicomio. Ma, se era così, allora da quanto tempo le succedeva di dimenticarsi quello che faceva la mattina?

«Tua madre me ne ha parlato, quella volta»

«Parlato di cosa?».

Lui esitò un po’. «Ti ricordi cosa è successo quando tua madre mi ha invitato in casa?».

Lei scosse il capo. Aveva cominciato a piangere, ma non sembrava rendersene conto. «Mi ricordo solo che mia mamma ti ha invitato in casa e… poi sono andata a dormire… credo».

A quel punto lui capì che non doveva parlargliene. Ci sarà stato un motivo se sua madre gliel’aveva sconsigliato. «Prendi», le passò un portachiavi a forma di chitarra. «L’ho preso così la prossima volta ti ricorderai di me».

«G-grazie», lei lo accettò e scoppiò a piangere.

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