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La moglie dell'orologiaio - Parte 1

Aggiornamento: 19 apr


La moglie dell'orologiaio

Racconto fantasy scritto in occasione di ben due Sfide delle 5 parole, per un totale di 10 parole:

Fungo, videogioco, ricordi, fresco, gufo, silenziatore, macellaio, biscotto, sposare, onda.

Riuscite a capire come ho scelto di utilizzare queste parole? Scrivetelo nei commenti!

 



“Tic tic”.

Joseph raccolse con delicatezza chirurgica un ingranaggio dal tavolo. Era così piccolo che avrebbe potuto fare parte di un macchinario di quelli che si vedono soltanto nei libri illustrati da Tony Wolf.

“Tic tic”.

Il suono incessante degli orologi la inebetiva, mentre cercava di seguire i movimenti del protagonista del videogioco: un affascinante orologiaio di Arland, città fantastica e dai chiari tratti steampunk.

Non riusciva a non emettere strani suoni ogni volta che la voce grave del doppiatore entrava in scena, rubandola a qualsiasi altro evento del gioco. Le provocava una strana reazione, in effetti. Suonava familiare quasi come un caldo abbraccio di sua madre.


Era da qualche giorno che stava testando il videogioco su richiesta di un cliente particolarmente frettoloso. Perlomeno lo era per quanto concerneva il suo lavoro, per i pagamenti “si può aspettare”.

Per quanto non le andasse a genio l’autore, la trama la stava coinvolgendo oltre ogni sua immaginazione. Per non parlare della qualità grafica degna di un tripla A.


«In che senso: si chiama come te?»

Il bubble tea della sua amica era vicino all’epilogo quando la interruppe.

«Quanti sensi dovrebbero esserci?»

Il contrattacco inaspettato spiazzò Rachele, che si prese un attimo per masticare le ultime perle di tapioca.

«Anna… Anna, ma bella» rise di gusto alla sua battuta stupida.

«Sì, okay. Annabelle. Non è esattamente lo stesso nome, ma mi ha colpita».

Discutevano sul nome della moglie del protagonista del gioco, rapita da un gruppo di sconosciuti mascherati con delle inquietanti teste di rapace.

Anna bevve finalmente un po’ del suo caffellatte. Era freddo.

«Bleah» tirò fuori la lingua come una bimba che se l’è appena scottata. «Odio il caffè freddo».

«E allora perché non lo bevi?» la stuzzicò l’altra. «L’ho sempre detto che parli troppo».

«Sta zitta».

Anna si stiracchiò alzando le braccia.

«Stai lavorando troppo, ormai sei chiusa in casa da quasi due settimane, dovresti prendertela con più calma. Prendi un po’ di sole! Inoltre, in base a quello che mi hai raccontato, questo cliente non merita il tuo tempo, figurarsi la tua anima».

«Ho bisogno di soldi» ribatté Anna, storcendo il naso dopo essersi resa conto della stronzata che aveva detto.

«Paga troppo poco».

La voce della verità, anche chiamata “Rachele”.

«Ti assicuro che fino ad adesso di bug non ne ho trovati molti e il gioco si fa giocare. Sto diventando dipendente, cavolo. Vuoi vederlo?»

Anna si alzò dal divano senza lasciare alla sua amica la possibilità di replicare.


Entrarono nel suo studio, una caotica piccola camera. Al centro troneggiava una scrivania regolabile, sepolta da un mucchio di libri, pacchetti di snack vari, due volumi della rivista nerd preferita di Anna, dei quali uno aperto e coperto da una ditata di cioccolato, una stampante, una tazza con scomparto per i biscotti e una quantità indefinita di cavi aggrovigliati tra loro.

«Sei mai riuscita ad alzarla quella scrivania?»

Anna non le rispose, era troppo concentrata a cercare il programma di avvio del gioco sul suo computer.

Rachele si appoggiò alla libreria alle sue spalle, carica di action figure, cercando di non buttare giù tutto.

«Eccolo».

Due click e avviò il gioco.

Dopo la schermata di caricamento apparve un menu ricco di dettagli, ingranaggi e macchinari classici del suo genere, compreso qualche elemento magico gassoso tipico del gaslamp.

«Si mostra bene, in effetti» commentò l’altra.

«È un bel lavoro. L’unica ragione per cui non l’ho mollato una settimana fa».

Una volta premuto “Play”, il gioco si presentò con una grafica realistica, avvolta in uno stile magico e tenebroso. Si ritrovarono nello studio del protagonista, Joseph. Classico gentiluomo dell’Ottocento, dai vistosi baffi castani che gli evidenziavano ancora di più il viso allungato. La grafica era così dettagliata da poter scorgere pure le sue fossette muoversi insieme alle micro-espressioni. Era vestito per bene con un completo marrone e una giacca a coda di rondine più scura.

I movimenti nel gioco erano fluidi, sembrava quasi di osservare una persona reale attraverso una videocamera di sicurezza ad altissima qualità.

«È o non è uno spettacolo?» gongolò Anna.

«Sì, sì. Avevi ragione» Rachele nel mentre si era avvicinata allo schermo per carpire ogni dettaglio al meglio. «Credo che farà il botto».

«Assolutamente. Ha un grande potenziale».

Dopo essersi procurata una sedia dal salotto, Rachele chiese «Quale hai detto che era lo scopo del gioco?»

«Per ora non si capisce ancora bene… che è strano, perché l’ho iniziato da un bel po’. Praticamente la moglie di Joseph è stata rapita e il suo obiettivo sarebbe di ritrovarla e scoprire cosa ci sia dietro il suo rapimento» mise in pausa il gioco, «Perciò per ora è molto investigativo. Stavo riparando un orologio su richiesta di un amico del protagonista, che pare saperne di più».

«Wow, mi sembra abbastanza intricato e noioso così. Non è il mio genere».

«Sì, in effetti è molto narrativo. Però ti rapisce».

«Okay» sospirò Rachele, «credo sia arrivato il momento per me di andare. Ti lascio lavorare».

La quest dell’orologio terminò con la consegna di quest’ultimo al suo legittimo proprietario: il macellaio Raymond, la cui figlia era fidanzata con niente di meno che il cugino del cancelliere.


«Sta andando tutto in malora», sentenziò nel mentre si ripuliva le mani lorde di grasso con un panno.

«Il lavoro non è più come prima. Il prezzo della carne si è alzato alle stelle. Non parliamo degli affari».

Raymond si appoggiò al muro con espressione corrucciata. Aveva un’aria sconfitta.

«Quanto va male?»

«Sei il secondo cliente della giornata. È probabile dovrò chiudere baracca».

Joseph strabuzzò gli occhi.

«Avevo notato i rincari, ma non pensavo che la situazione stesse degenerando a tal punto. Non c’è nessuno che possa aiutarti?».

Raymond emise una risata strozzata, «Non chiederò mai a mio genero, se è questo che intendi. Quella gente non mi piace».

«Cosa intendi?»

Il macellaio iniziò a giocherellare con la sua barba in maniera nervosa.

«Mi darai dello sciocco, d’altronde anche tu hai delle “conoscenze”» faceva riferimento al fatto che Joseph era sposato con la figlia di un politico, «ma sono convinto che dietro a tutto questo ci siano loro»

«Pensi davvero che il governo sia coinvolto in ciò che sta accadendo alla città? E come?»

«Ah, non lo so. È solo una sensazione. Mah… lo sai: sono bravo in queste cose»

«Certo. Anche se con i “se” possiamo riempirci le fosse».

Raymond sorrise, eppure i suoi occhi erano malinconici.

«Ricordo ancora quando vi presentai».

La bocca di Joseph si piegò in un quasi impercettibile sorriso. Durò poco. Rimase in silenzio e abbassò lo sguardo.

«Spero che stia bene» continuò il macellaio.

Annabelle era stata rapita ormai da più di un anno e nessuno aveva più avuto sue notizie. Si pensava a un possibile riscatto, essendo lei la figlia di un pezzo grosso del governo. Eppure, niente.

Nulla poteva descrivere il dolore di Joseph in quei lunghissimi mesi. Rintanato come un topo nella stessa casa che aveva condiviso con la sua amata.

«Lei è ancora viva. Lo sento».

Raymond annuì nel tentativo di confortarlo.

«Tornando al discorso di prima… in che modo pensi possa essere coinvolto il governo?»

L’amico si passò una mano sulla pelata e riprese a giocare con la barba. Un mucchio di fili argentati luccicava ogni volta che veniva smossa.

«Forse è meglio se ne parliamo davanti a una tazza di tè. Che ne pensi?»

Joseph accettò la proposta e, dopo aver chiuso il locale per inattività, Raymond lo accolse a casa sua, la cui entrata si trovava proprio sul retro della macelleria.


«Accomodati pure» il suo amico gli indicò il tavolo della cucina. Uno spazio angusto, difficile capire come fosse riuscito a far passare un tavolo così massiccio attraverso una porta così stretta.

Joseph prese posto, mentre l’omone iniziò a scaldare l’acqua in un pentolino di metallo.

«Edward non mi è mai piaciuto», parlava del marito di sua figlia. «è sempre stato sfuggente… e non mi piace come la tratta».

«Capisco… non mi sembra una bella persona, da quello che dici. Pensi sia coinvolto in qualcosa?»

Joseph iniziò a temere di essere rimasto invischiato in una questione tra padre e genero, ma si trattenne, per educazione, dal fare commenti.

«Un giorno ero in visita a casa loro. Hanno davvero una bella casa, sai. Lui non si è fatto vivo neanche per salutare. Inizialmente non ci feci molto caso, ho pensato che fosse fatto così e ho lasciato perdere. Poi però sono capitato, per sbaglio eh, nel suo ufficio. Cercavo il bagno, giuro» lo affermò con la sua solita “eleganza” da marinaio. «Così ho dato una sbirciata ai documenti che teneva sulla scrivania. Lo sai che sono un tipo curioso» aggiunse con tono leggero, come se fosse una scusa valida. «Mi è capitato sottomano un comunicato che probabilmente non avrebbe dovuto trovarsi lì. C’erano informazioni su un fungo, o qualcosa del genere. Richiedeva la “massima segretezza”. Non so sinceramente cosa volesse dire, ma se c’è di mezzo qualche epidemia, non è un buon segno che ce lo stiano nascondendo».

Raymond gli servì il tè nero, rovesciandone per errore qualche goccia sul tavolo. “Accidenti” ringhiò.

«Non fa niente», Joseph non fece in tempo a finire di parlare che il suo amico si era già alzato a prendere un panno per pulire.

«Con chiunque poteva sposarsi mia figlia, ma con un bugiardo proprio no!»

«Un fungo? In che modo un fungo può diventare un argomento così delicato?».

«Non lo so. So solo che con i problemi di carestia che stiamo avendo negli ultimi anni non possiamo più fidarci di chi ci dice che va tutto bene».

Raymond aveva ragione e Joseph era sempre più impaziente di scoprire cosa si celava dietro al potenziale inganno del governo.


«Ah!».

Anna gemette. Qualcosa come un lampo bruciò nella sua testa, costringendola a staccarsi dal computer.“Di nuovo?”Era da qualche giorno che stava sperimentando una forte emicrania. Strano, perché in anni di lavoro non aveva mai avuto dei mal di testa così distruttivi.

Si spostò sul divano del salotto, distendendosi supina. Denti digrignati e mani sugli occhi. Qualsiasi rumore non faceva altro che gettare combustibile in quell’inferno. Le faceva tanto male che non riusciva a distendere i muscoli.

A peggiorare la situazione erano delle immagini e dei suoni, non molto nitidi, che le apparivano durante questi episodi. Inizialmente, pensava che fossero collegati a quelli visti e sentiti sullo schermo, nulla di strano.

Quello che non le tornava era che le immagini diventavano sempre più nitide e si sentiva strana, alienata.Era in una grande casa. Ne percorreva i corridoi come se vi avesse vissuto per una vita. A un certo punto, un uomo attraversava la porta di una stanza adibita a studio. Capiva che era alto, ma i dettagli erano indistinguibili. Aveva un portamento elegante, nonostante avesse indosso una vestaglia per la notte, e forse degli occhiali rotondi appoggiati sul naso.

Lui le stava parlando, ma dalla sua bocca non usciva niente. Solo un fastidioso tinnito. Più l’orecchio vibrava e più il dolore aumentava.

Quando terminò il suo discorso, lui si girò verso sinistra. Doveva aver sentito un rumore. Scattò in quella direzione.

Le immagini si esaurirono in un nero vuoto e il dolore, lentamente, si affievolì.

Ogni giorno quelle visioni si arricchivano, in qualche maniera sembravano calzare con il progetto su cui stava lavorando. Ecco cosa succedeva a ossessionarsi con qualcosa.


Appena recuperò l’equilibrio, si alzò ed estrasse dal frigo la sua mascherina in gel per gli occhi. Il freddo forse avrebbe migliorato il dolore. Non riusciva a smettere di pensare a quello che aveva visto. Il cuore le batteva a mille. Sembrava tutto così estraneo e così famigliare allo stesso tempo. Sentiva che sarebbe impazzita.

Era molto tentata di scrivere al cliente che avrebbe dato forfait, ma qualcosa dentro di lei le diceva che doveva andare avanti. Quel videogioco era speciale. Non sapeva spiegarsi in che modo, ma lo era.

Joseph l’aveva colpita dal primo momento. Usando la logica, non sembrava neanche un protagonista particolarmente interessante. Non sapeva darsi una risposta. Ogni volta che lo guardava il suo cuore mancava un battito. La sua voce grave la faceva sussultare. Al solo pensiero le salirono diversi brividi lungo la schiena.

«Perché?Joseph. Che cos’hai di speciale?».


Fu la curiosità a spingerla ad addentrarsi di nuovo in quell’avventura.

Era troppo curiosa, così cercò di ignorare il bruciore dietro agli occhi e, controller alla mano, si rimise al lavoro.

L’indagine di Joseph andò avanti, tra un testimone e l’altro. Grazie alla sua influenza come orologiaio, per non dire marito della figlia di qualcuno d’importante, ottenne ancora più informazioni riguardanti le losche manovre del governo.Si vociferava che i rapitori di Annabelle potessero essere legati a un gruppo segreto di ribelli, accomunati dall’odio nei confronti delle autorità. Avevano già rapito altre persone e probabilmente Annabelle non sarebbe stata l’ultima.

Indagò per tutto il giorno e riuscì a scoprire l’identità di una loro vittima.

Mary Levintov era il suo nome. La figlia di un ambasciatore delle Terre di Samis, paese poco a Nord di Arland, in ottimi rapporti con gli attuali capitani reggenti della Repubblica.


Il sole era in procinto di calare quando raggiunse la mansione dei Levintov, Un grosso  edificio candido e dallo stile squisitamente vittoriano, protetto da un ampio cancello in ferro battuto costellato di decorazioni in oro. 

Avvicinandosi attirò l’attenzione del vecchio giardiniere. «Lei è?» gli chiese, sornione.

«Mi chiamo Joseph Russell. Sarebbe possibile avere udienza con il signor Levintov? Devo discutere con lui di importanti questioni».

L’uomo sorrise con gentilezza, appoggiò al muretto la cesoia che aveva in mano e si dileguò tra i cespugli che guidavano le scale sul viottolo d’ingresso.

Attese lì per una quantità di minuti indefinita. Stava per perdere le speranze, quando sentì un fruscio accompagnato da un tintinnio.

Il giardiniere era tornato con le chiavi del cancello.


Un altro lampo sembrò squarciarle il cranio. Il dolore era ancora più forte di prima. Tanto che Anna fece in tempo ad afferrarsi la testa con le mani, per poi cadere dalla sedia e perdere conoscenza.


“Lasciala! Perdio, lasciala!”.

Sentì qualcuno urlare dietro di lei. Il suono si allontanava, sempre di più.

Anna aveva l’impressione di essere costretta. Le facevano male le braccia e una brutta sensazione le ghiacciò il sangue.

«Lasciatemi» sbuffò, senza capire perché. Le mancava il fiato.

Intorno a lei era tutto buio, eppure era come se sapesse che qualcosa non andava, che non era al sicuro.

«Cosa sta succedendo?».

La paura prevalse e lei iniziò a contorcersi, nella speranza di liberarsi da quella sensazione di costrizione. Non respirava bene e l’ansia diventava sempre più incontrollabile.

«Guarda», una voce emerse improvvisamente dal buio. 

Apparteneva a un uomo, ne era certa.

«Cosa è successo?», un altro.

«Non lo so, ma non va bene. Devi calmarla».

Anna udì dei passi avvicinarsi a lei. Un leggero suono di risucchio e di nuovo la calma.


Si risvegliò sul suo pavimento. Il tondo tappeto polveroso le aveva riempito i capelli di pelucchi.

«Quando mi deciderò a dare una pulita? Accidenti a me».

Si spostò sulla sedia e poggiò la testa alla mano.

“Che strano. Sembra essere passato”.

Se c’era una cosa che poteva preoccuparla ancora di più dello svenimento, era il fatto che la sensazione di disagio provata poco prima fosse del tutto svanita. Si sentiva bene, troppo bene.

Decise di prendersi una pausa e che avrebbe continuato con il progetto il giorno dopo. Sicuramente se ci fosse stata Rachele le avrebbe ricordato che doveva smettere di lavorare così tanto, o sarebbe finita in pronto soccorso prima o poi.


Sorrise e chiuse gli occhi.




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